Questa è una panchina

Posted on 30 dicembre 2011

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Scrivo quattro parole, perché troppe ne ho dette. (Parentesi: post vano e vacuo, se avete cose serie di cui occuparvi: andate oltre. Campiamo nella rete – lo sapete – quindi uno finge che questo sia un diario segreto. Questa la colonna sonora, se vi va).

Non salgo su una bilancia da anni, vale lo stesso coi termometri: a casa mia non ce ne sono. L’idea, solo l’idea, di misurare volumi e temperature, che poi vale uguale anche per gioie e dolori, mi atterrisce. Per dire: pure gli esami del sangue – nonostante il mestiere di mia mamma – son processioni cui non partecipo. Quindi niente controlli, misurazioni, perizie: sarò un’esistenza noiosa, ma so darmi un contegno anch’io. Come sta la mia coscienza, lo saprà lei sola ovviamente. Preferisco contare, più che misurare: si sarà capito. Si contano le persone, le persone contano. E, di persone, ne ho perse ed incontrate tante in dodici soffici mesi. Se fossimo un oggetto saremmo un’automobile, di quelle familiari, col portapacchi in cima: un delirio di sorprese e sorrisi e sollievi e soprusi. Ci si sta alla grande, qui dentro, e chiunque mi abbia fatto salire a bordo si merita un applauso. Non che questo sia un bilancio, manco per sogno: già detto. E non cercate il «dunque» perché non c’è, uno scrive per pensare con le mani e gli occhi: mica per venire al sodo. Tatto e tastiera, questo lo spirito: non siate troppo esigenti, navigate a vista.

Non sembra, ma questa riflessione è una panchina. Comoda e vuota. La pace su cui ti siedi per guardarti dentro, una panchina su cui mi siedo ora che l’anno sta per finire. Guardo dentro e trovo tanto, sentirsi pieni ma non di sé. Pieni e senza fondo, pronti ad accogliere, percepire, assaporare. La fine di un anno è un gong necessario, ufficiale, formale: ma poi ognuno sulla panchina si siede quando gli pare. E stabilisce, ora che c’è, il fine dell’anno. Il diemilaundici è pitturato di vittorie grandi, piccoli successi e sconfitte brillanti, occasioni perse. Canzoni scoperte, bocche aperte, oggetti smarriti, parole sprecate: cose così. Errori che manco v’immaginate e soddisfazioni che manco m’immaginavo. C’è del bello a sapere di non esser soli e del bello a poter restare soli. “Tempi” credo sia la parola chiave, ma io stesso non so quale significato darle. Forse il fine era: provare a fare da sé, a costruire una cosa che metti in un posto, regali agli altri, ti soddisfa a intermittenza, ripari ogni tanto e sempre dici: «Diamine, questa è opera mia». Poi il fine, uno dovrebbe darselo: ampio, nebuloso, migliorabile, confuso, emendabile.

Facciamo che ce l’ho, del tipo che ci penso ancora un po’ e poi scommetto su una cosa nuova. Ho intuito l’importanza del ruolo dei distruttori di certezze e mi guardo bene dal frequentare gli spacciatori di verità: il dubbio mi garba assai. La promessa di cambiare opinione, smussare le convinzioni, strangolare i pregiudizi è quella con cui comincio ogni confronto. È l’unico modo con cui mi riesca di spernacchiare la noia dei concetti e di eccitare la curiosità che mi contagia. Mi piacciono le moltitudini affollate e le incoerenze sincere: il cambiamento più grosso che offro a chi inciampi in queste metafore imbarazzanti è restare me stesso e cambiare il resto (o anche provare a raccontarlo con le sillabe più vere e meno paracule). Il marcio, il vuoto, l’indifferente, il relitto, il distratto, il riciclato. Qualcosa combinerò, ora che mi alzo dalla panchina – ci metto solo un attimo, e so che sarà divertente per me. Spero non solo per me.

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